Franco Fossi – A cura di Francesco Butturini

Franco Fossi

A cura di Francesco Butturini

Copyright 2004 – Edizioni d’Arte Giorgio Ghelfi – Verona

“Il vero e proprio enigma che il tema dell’arte ci pone è proprio la contemporaneità del passato e del presente” |1|.

Vorrei iniziare la mia breve riflessione sulle opere di Franco Fossi con quest’affermazione di H.G. Gadamer, ed affiancarla con quest’altra presa dalla stessa operetta: ” … chi crede che l’arte moderna sia degenerata non riuscirà mai a capire adeguatamente la grande arte delle epoche passate. Bisogna imparare che si deve prima sillabare un’opera d’arte, e poi si deve imparare a leggerla, e soltanto allora essa comincia a parlare. L’arte moderna è un buon avvertimento per chi crede che, senza sillabare, senza imparare a leggere, si possa udire ancora il linguaggio dell’arte antica” |2|.

Ecco allora davanti a noi i gessi e i bronzi di Franco Fossi: non sono molto grandi. Eppure hanno una loro monumentalità fascinosa, quasi misteriosa. Dovremo scoprire il perché.

Forse il bianco del gesso costituisce in questa aura monumentale un valore aggiunto. Ma aggiunge anche una sensazione di smarrimento del\nel tempo: il gesso è polvere: la polvere da cui nasce Adamo. E ci si perde così, subito, nelle origini più remote della nostra storia di inseguitori delle orme di un’estremo onnipresente che si nasconde, di cui vediamo sulle rene dei mondi impronte che il bagnoasciuga cancella attimo per attimo e ancora luccica un istante e balugina l’impronta più profonda del tallone.

Eppure questa monumentalità rimane intatta.

Anzi: tangibile.

Viene alla mente il bianco splendore dei marmi parii di Prassitele, di Fidia. Quel biancore, però, trasluce. Il gesso è opaco e, se mai, riluce.

È il rimando a qualcosa d’altro, allora, che mi sillaba questa monumentalità innegabile: è il rimando ad un equilibrio composito\propositivo delle parti, dei vuoti e dei pieni, dei verticali e degli orizzontali, dei morbidi e dei duri, dei dolci e dei taglienti.

Tutto questo è classicità.

Non ha altri nomi e nel nostro – nel senso di occidentali – DNA significa monumentalità, il cui ambito semantico richiama inequivocabilmente il verbo moneo, ma anche il sostantivo munus e ci rimanda quindi alla necessità di trovare un significato a queste forme. Un messaggio sufficientemente chiaro che consoli il tempo della nostra visione. Abbiamo a disposizione dei vocabolari, anche delle grammatiche e delle sintassi: si intitolano Umberto Mastroianni, Pietro Consagra, Arnaldo Pomodoro, Igor Mitorai: in essi troviamo quanto necessario per seguire l’utopia di Franco Fossi e sillabare e quindi leggere la sua classicità contemporanea.

Egli e gli altri che ho citato come possibili esempi parlano lo stesso linguaggio dell’utopia della forza dei corpi nello spazio di aprirsi alla luce del sole come semi delle cose e raccogliere intorno a sé l’alito di vita perenne, quel semen sparsum di lucreziana memoria generatore dell’universo.

Franco Fossi è partito come grafico, come pittore vicino alla Pop Art: argomento non secondario per un’altra sillabazione: ricordare che è forte il messaggio contenutistico iperrealistico ed ipercodificato nelle opere della Pop Art.

Anche nelle modellazioni di Fossi il messaggio è forte, ma sfugge all’ipercodifica che annulla il significato delle parole\oggetti\immagini offerti: è l’invito a vedere oltre l’oggetto la sua più reale realtà, che supera il fenomenico per divenire esistente, perchè dall’esistenza coglie l’esistente e ne diviene parte principale.

È cogliere l’essenza stessa dell’esserci.

Un invito che nasce dal sogno della bellezza come perfezione buona. Un tempo che insegnavano a dire come kalokagathia (kalòç kaì agjòç = bello e buono, il bello è buono il buono è bello).

Ecco il valore primo di questi volti che appaiono come emergenti dallo spazio predeterminato in volumi geometrici: quasi premesse plastiche dell’apparizione.

Quasi un’invocazione. O meglio: un’inquadratura, premessa e luogo per chi dovrà arrivare ed apparire.

E allora i solidi plasmati nel gesso divengono di volta in volta il sipario, il velum che nasconde l’origine dell’apparizione del volto.

Nel volto è l’immagine eterna degli umani, secondo quella “pedagogia del volto” |3| che Levinas ha posto come caposaldo delle relazioni per mezzo delle quali l’uomo conosce l’altro e cerca nell’altro il divino che pulsa in se stesso |4|.

C’è un profondo – ma non nascosto – desiderio di uno spirito immortale in queste modellazioni: un inseguimento.

Quell’inseguimento cui accennavo all’inizio.

Basta lasciarsi prendere dalla modellazione, qualunque essa sia, e ti senti trasportato in un abisso di sensazioni in cui prevale un sentimento di nostalgia che rasenta l’ineffabile, in forza del quale “la meraviglia trascende la conoscenza” |5|.

Ecco quindi che, a mio avviso, per leggere le opere di Franco Fossi bisogna non aver paura di abbandonarsi allo stupore e alla meraviglia per non correre il rischio – così comune – di non comprendere che “il più grande ostacolo sulla via della conoscenza proviene dallo spirito conformistico con cui accettiamo nozioni convenzionali, cliché mentali. Un senso di meraviglia o di profondo stupore, uno stato di disagio nei confronti di parole e nozioni, sono pretanto il presupposto per una autentica consapevolezza di ciò che esiste.” |6|.

Francesco Butturini
1) Hans George Gadamer “L’Attualità del bello” Marietti 1820 Editore, Genova 1986, p.50
2) Ib. pag.52
3) che é il titolo di un’operetta di Stefani Curci: “Pedagogia del volto – Educare dopo Levinas”, EMI Ed. Bologna 2002
4) ad esempio in ” Dio che viene all’idea ” (1982) traduzione presso Jaca Book, Milano 1997
5) In Abrham Joshua Heschel “L’uomo nel solo” Mondadori, Milano 2001, p.26
6) Ib. pag. 25

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