Conversazione di Marco Hagge* con Franco Fossi

Conversazione di Marco Hagge* con Franco Fossi

*Giornalista RAI

Caro Franco: noi siamo coetanei e ci conosciamo da una vita, da quando facevi parte del parco operatori esterni della RAI in Toscana. Non so se ti ricordi, ma allora (primi anni Novanta), quando ancora gli uffici contabili non avevano preso il potere nei giornali, si usava che se un operatore aveva del materiale da proporre per un servizio, lo offriva al redattore cui pensava potesse interessare, e, se del caso, la sua offerta era accettata. Ricordo una tua cassetta, molto bella, che documentava l’obiettivo di Aurelio Amendola alle prese con la Sacrestia Nuova di Michelangelo. In quel caso, contrariamente a quanto si usa, sono stato io a dovere adattare il testo alle immagini (senza saperlo, hai vendicato generazioni di colleghi). Ne venne fuori un servizio piuttosto interessante. La tua fotografia è precisa, nitida, con un gusto pignolo per la perfezione dell’inquadratura e della luce. Del resto, tu che fotografi un fotografo d’arte credo che, da questo punto di vista, sia il massimo. Certo, chi poteva immaginare che qualche anno dopo Aurelio si sarebbe scomodato proprio per fotografare le tue opere? Forse tu: io, no di certo. La scoperta della tua attività artistica è stata una sorpresa: sei stato tu a mettermi al corrente, facendomi vedere le opere grafiche che tenevi semi-nascoste in un magazzino. Conoscendoti come videomaker di grande perizia ma di taglio, tutto sommato “classico”, ho avuto una certa difficoltà a sovrapporre le due immagini. La tua ricerca mi fa l’impressione di un fiume carsico, che appare, scompare e ricompare. Del resto, questo comportamento metodico fa parte del tuo carattere. Mi viene in mente il sistema con cui hai progettato il giardino di casa tua: ogni tanto, qualche metro quadrato di porfido e pietre; un muretto di vecchi mattoni; un vialetto di sassi; un cipresso: la realizzazione di un progetto, rigorosamente non disegnato, che esisteva solo nella tua mente, che “vedevi” solo tu. In fondo, mi pare che con le tue sculture sia andata in maniera analoga.

In effetti, ora che me lo fai pensare, devo dire che il parallelo c’è. Fa sempre una certa sorpresa sentirsi osservati dall’esterno, come fa un certo effetto affidare le proprie opere al pubblico, e quindi all’interpretazione altrui. Ciascuno di noi ha un’immagine di sé che non sempre coincide con quella che hanno gli altri. E poi, ammetto, si prova insieme meraviglia e un certo piacere a sentirsi “interpretati”…

Chi fa qualcosa per il pubblico (in parole, musica o immagini) è sempre (diciamolo francamente)un po’ esibizionista. Con tutti i rischi che questo comporta. Ricordi Cavalcanti? Vai tu, leggera e piana, ballatetta in Toscana, dritt’alla donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore (speriamo). Un messaggio nella bottiglia. Alla fine, uno può sempre chiederti: ma chi te l’ha fatto fare ? Non ci hai pensato, all’inizio ?

Beh , forse è un po’ paradossale, ma c’è del vero… Comunque, io ho cominciato in maniera molto più semplice e “normale”. Semplicemente, avevo quindici-sedici anni e frequentavo l’Istituto statale d’arte di Porta Romana a Firen…

Ma ti rendi conto? Si parla del 1970-71. Praticamente, la preistoria. Io studiavo dall’altra parte dell’Arno (chiedo scusa per l’inserto autobiografico). Continua.

Beh, che cosa fa uno studente d’arte a quell’età? Si guarda intorno, annusa, cerca… Io ero come ammaliato da Monna Lisa, l’opera più famosa di Leonardo: e fin qui, niente di straordinario. Con la Gioconda ci hanno provato tutti: Duchamps le ha messo i baffi, le parodie non si contano. Ma io ero come ipnotizzato da ciò che emana il silenzio del suo fondale, dalla linea del disegno, la linea del volto, il modo in cui procede, vira, ripiega, riprende… Allora ho cominciato a disegnarla e poi a svilupparla. Per rendermi conto di come funzionasse, prima di tutto, pensando al Leonardo da Vinci, Docent. Così ho cominciato i miei disegni. Grafica, insomma. Che tu hai visto nel magazzino che citavi…

Se questi disegni realizzati a pezzo unico in serigrafia ed olio su tela (che io trovo piuttosto interessanti) li hai tenuti in clandestinità per una trentina d’anni, avrai avuto i tuoi motivi. Se mi permetti un inserto storicizzante (altrimenti, che ci sto a fare?), direi che risentono di uno stile abbastanza in voga in quegli anni. Vagamente psichedelico. Si parte da una foto, e delineano le parti in luce, in modo che quelle in ombra scompaiono. Ricordo alcune copertine dei Beatles. La tua partenza è ovviamente più “alta”, ma mi pare che l’humus (ti piace il termine?) sia quello.

Grazie per l’humus. Vorrei dire una cosa a proposito di quella che tu chiami “clandestinità”. A un certo punto, ho smesso, e basta. Chissà perché. E poi ho ricominciato una trentina di anni dopo le prime prove su tela. Mi piace quella immagine del fiume carsico. Forse è andata proprio con lo stesso meccanismo.

Una cosa che, con tutta la mia buona volontà, non riesco a capire, è la tendenza, oggi piuttosto diffusa, fra gli artisti, alla auto-interpretazione esplicita. Mi pare un vezzo, innocuo ma, permettimi, abbastanza controproducente. Soprattutto perché lasciano l’impressione di voler dare un supporto, una specie di tutore ortopedico, alle loro creazioni, quasi temessero che queste non possano sostenersi da sole. Però, nel pubblico (e il critico è innanzitutto una persona del pubblico) rimane comunque la curiosità di rivolgersi all’interessato, di curiosare nella sua officina. E allora io ti chiedo: come spieghi questa riemersione del rimosso?

Beh, proprio rimosso non era. Se no, invece che nel garage, fogli e tele (perché c’erano anche pitture, ricorderai, non solo disegni) si troverebbero chissà dove. Per quanto riguarda il perché, forse un intuizione che doveva maturare col tempo, beh, che ti posso dire? C’è stato, e basta. Anche perché io continuavo nel mio lavoro “ufficiale”. Il fatto è che mi sono detto: perché non sviluppare ancora le possibilità di questa linea continua? Poi nei primi anni 90 il caso ha voluto che ne abbia parlato con due grandi artisti: prima Igor Mitoraj (che, non lo crederai, avrebbe voluto fare il regista) e poi Venturino Venturi.

Due personalità molto diverse.

É vero che mi hanno detto la stessa cosa: non lasciar perdere, prova, continua. E così ho cominciato a modellare.

Stop. Mi stai fornendo informazioni interessanti. Mi pare che il processo si potrebbe riassumere così: dalla linea (monodimensionale) al piano (bidimensionale) alla plastica (tridimensionale). Insomma, a un certo punto la tua linea, stanca di dormire sul foglio (o sulla tela), si sveglia e si alza (si aderge, direbbe un critico con la “C” maiuscola): insomma, aggredisce lo spazio, lo conquista. C’è una tua scultura che mi quasi mi ipnotizza: quella dei volti che si moltiplicano in una serie di piani inclinati (lì c’è non solo la successione spaziale, ma anche quella temporale, come una serie di fotogrammi al ralenti). Ma poi vorrei notare un’altra cosa.

Che cosa?

Che hai detto “modellare” (e lo hai anche fatto). Non “scolpire”, ma “modellare”. Non è una piccola differenza. In effetti, modellare è una attività, come dire, più in linea col tuo temperamento “carsico”. Uno può provare, pentirsi, ricominciare (in fondo, si fa così anche col nastro magnetico: si cancella, e via). Il modellatore è più meditativo, rispetto allo scultore, che sbozza e toglie. Quella dello scalpello, da un certo punto di vista, è una attività traumatica. Pensa al marmo: che botte alle sue povere molecole… Vuoi mettere la felicità della creta o del gesso, carezzati e massaggiati? Grande cosa, la fusione in bronzo…

Sì, grande cosa la fusione in bronzo a cera persa: ma anche notevolmente complicata e molto costosa.

Ah, beh, certo… Lavoro di équipe: organizzazione, coordinamento… I costi, anche… Però, vuoi mettere? E’ un rito… E poi, il fuoco, l’attesa… Ad ogni modo: tu modelli. E modelli a tutto tondo.

Non riesco a concepire un’immagine che si offre in un’unica maniera. Per quello ci sono i quadri…

E le inquadrature cinematografiche…

Appunto.

Vedi? Però, qualcosa di cinematografico nelle tue opere è rimasto. Ed è proprio la “carrellata” a cui tu obblighi lo spettatore. Lo fai girare intorno. Oppure, lo puoi mettere comodamente seduto, facendo girare l’opera su un tornio. Se invece dello spettatore ci metti una telecamera, ecco una ripresa perfetta. Le luci, naturalmente, le mette Aurelio.

Grazie per la fiducia.

Perché Aurelio è un critico munito di obiettivo fotografico. L’ho visto al lavoro con un’opera di Burri: la scelta del punto di vista per lo scatto valeva una conferenza.

Sì, perché significa ripercorrere il cammino dell’artista per restituirlo nella maniera più fedele possibile.

Anche perché il lavoro di un artista, in questo caso il tuo, è sempre in corso. Voglio dire: quando un musicista prende un tema melodico, non lo lascia prima di averlo variato in ogni modo, finché “sente” di averne ricavato tutto quello che poteva. Analogamente, tu parti da una ricerca grafica e arrivi alla tridimensionalità; e in questa direzione procedi con forme sempre più grandi, più monumentali. Dal mio punto di vista, è una crescita nella quale non avverto cesure. E’ la linea che si fa prima bidimensionale, e poi “chiede”, ottenendolo, il “tutto tondo”. Come, appunto, un tema che continua a svilupparsi.

Io l’ho chiamato “il DNA di Monnalisa”. Molecole che si intrecciano all’infinito. In effetti, si potrebbe anche definire come modulo, nucleo, atomo, microchip addirittura. Insomma: un simbolo poetico, un elemento primario che si combina e si sviluppa all’infinito.

Sul tuo biglietto da visita c’è scritto: “artista”. Restiamo fedeli all’etimologia: artista è colui che “sa fare”, e “fa” in una maniera completa, riuscita, inventando forme che hanno la radice in lui stesso, in quello che pensa, in quello che ha scoperto. E’ il modo in cui vede il mondo, ma soprattutto il modo in cui lo rappresenta, che lo fa tale. Il suo dominio è la forma, l’intuizione, l’emozione. Quello che per essere espresso verbalmente richiederebbe un lungo discorso, lui lo mostra con la sintesi estrema della forma, dell’ “oggetto” unico. Un oggetto che, diversamente dalle cose “naturali” (che esistono necessariamente), esiste solo perché lo ha deciso il suo autore. Ciò che tu chiami “DNA” (e la definizione mi pare felice) di Monnalisa, in realtà è il tuo. Nel senso che, fra gli infiniti stimoli che potevi ricavare da quell’opera, hai scelto proprio questo.

E’ in questa arbitrarietà che però sta anche il rovescio della medaglia: quello del “significato”. La gente continua a chiedere: che cosa vuol dire?

Ti rubo la risposta. Bisogna partire dagli “oggetti”, vedere come sono fatti, chiedersi perché sono fatti in quella determinata maniera. Gli oggetti sono quelli che vedo, e vedo una linea che si fa immagine piana, e poi “aggredisce” lo spazio, se ne appropria, piegandolo (attraverso la composizione dei volumi, dei pieni e dei vuoti, della luce e dell’ombra) a se stessa. In fondo, la gente ha timore dell’informale, mentre crede (a torto) di capire il figurativo. In realtà, il più delle volte si limita a “riconoscere” le cose raffigurate. Oggi la gente deve riconoscere tutto, immediatamente. Una vera mania. Altrimenti si sente mancare la terra sotto i piedi. Quella che era la provocazione della Pop Art è diventata la condizione normale della visione quotidiana. L’iperrealismo è diventato il linguaggio della pubblicità. Una autentica ossessione: si deve sempre vedere e dire tutto. L’arte dell’allusione va perdendosi. E’ l’estetica delle telenovela, che imperversa anche al cinema. Un disastro. Vai agli Uffizi, allora, con questa disposizione: che cosa significa la Primavera del Botticelli, se non la interpreti? Che ci sta a fare quella signorina tutta contorta fra i putti volanti? Perché si toglie i fiori dalla bocca? E’ vegetariana? E’ pazza? Sta vomitando? E quel tale tutto livido con le guance gonfie, chi è? L’erborista che le ha prescritto la pozione?

Fatto sta che la domanda rimane,..

Ovviamente non è facile rispondere. D’altra parte, la caffettiera di Aldo Rossi o il bollitore di Philippe Starck, quello con l’uccellino che fischia, che cosa significano? Che cosa significa disegnare un oggetto d’uso in un modo o nell’altro? A che serve? E’ un gioco intellettuale ed estetico, condito di ironia, ma anche di una certa nostalgia. L’arte è sempre ambigua, carica di significati possibili. Qui sta la sua ricchezza. Nel caso specifico, direi che i tuoi oggetti significano quello che evocano. Quindi significano quello che io ci vedo. E io vedo volti che si materializzano, visioni che prendono forma e scompaiono; oppure che si ergono, si compattano, fino a comporsi in vere e proprie cattedrali. Osservo, e ammiro i pieni e i vuoti che si bilanciano; mi compiaccio del fatto che i raccordi fra le viarie parti sono ingegnosi, equilibrati ed eleganti; che il rapporto fra davanti e dietro è costruito in maniera sapiente. Seguo l’andamento delle linee, entro nei vuoti, passeggio sui pieni. Sono forme imponenti (nel senso che “si impongono”, chiedono di essere guardate e considerate per come sono fatte), che uno storico dell’arte può inquadrare in vari modi, ma che comunque reggono alla prova dell’osservazione, quella che segue il primo impatto. In ogni caso, ti consiglio di non rispondere mai a questa domanda. In genere, gli artisti lo fanno in maniera disastrosa, perché cadono nella trappola di parlare al posto della loro opera.

E con questo l’intervista è finita?

Un po’ strana, come intervista: ho parlato sempre io. Del resto, io ho terminato: da ora in poi, parli tu. Per farlo, hai tutto il tempo e le opere che vuoi.

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