Studi del primigenio seme 1972 – 1990 – “L’origine oltre il visivo”
A cura di Luigi Meneghelli
© Copyright 2006 – Edizioni d’Arte Giorgio Ghelfi – Verona
Franco Fossi
Sotto il segno della Gioconda
Apprestarsi a dimenticare e sempre tornare
agli ormeggi del cominciare.
J. Ashbery, Frammento
1.
E’ probabilmente il quadro più famoso del mondo. La Monna Lisa di Leonardo emana un’atmosfera così magica, che per secoli ha affascinato l’immaginazione di poeti, artisti, scienziati. Generazioni di contemplatori e di sognatori hanno creato attorno ad essa un’aura spirituale d’una intensità incalcolabile. E in un’epoca tutta sintonizzata sul fascino irresistibile delle merci e l’ostentazione sofisticata dei consumi la sua immagine è stata sottoposta a uno sfruttamento selvaggio che ne ha visto la riproduzione fin sui coperchi delle scatole di cioccolatini o l’impiego pubblicitario per reclamizzare una marca di acque minerali. Ma niente ne ha scalfito l’enigmatica bellezza (nemmeno i famosi baffi che vi ha aggiunto Duchamp o le trenta Gioconde affiancate di Andy Warhol). Nel momento in cui la si guarda, Monna Lisa sembra volerti parlare e pare guardare solo te in un rapporto dialogico esclusivo, capace di essere intenso anche senza parole. Un simile effetto Leonardo dovette ottenerlo non soltanto con le magie dei toni e del celebre “sfumato leonardesco” che rende l’atmosfera brumosa e soffusa, ma, prima di tutto dosando sapientemente quegli elementi che costituiscono lo schema basico della composizione.
Ebbene, tutta l’operazione di Franco Fossi sembra indirizzata a cogliere e ad analizzare proprio le varie componenti che hanno concorso alla realizzazione del capolavoro. E il suo procedimento assomiglia a quello di un detective, che insegue le tracce e gli indizi (nel nostro caso, il senso segreto delle linee, delle forme, delle prospettive dell’opera), per arrivare a individuare il momento genetico o “L’Origine”, come la chiama lo stesso Fossi, che sta dietro (ed oltre) il semplice dato visivo. Non si tratta però con questo di frugare morbosamente su ipotetici antecedenti, sulla posa leggermente torta della figura, sul suo sorriso imperscrutabile, ma di fissarsi sul linguaggio, come fosse la scaturigine, la fonte, la memoria archetipica a cui rifarsi per elaborare una riflessione visiva senza fine.
E’ sempre l’artista di Empoli a confessarlo: “Io ero come ipnotizzato da ciò che emana il silenzio del fondale, dalla linea del volto, il modo in cui procede, vira, ripiega, riprende… Allora ho cominciato a disegnarla e poi a svilupparla. Per rendermi conto di come funzionasse…”. Il che è come dire che il tema, il mito (della Monna Lisa) è lì per durare e insieme per scomparire, lasciando il posto a quello che del mito è la possibilità di essere reinterpretato, un po’ come fa Modigliani, tratteggiandone sulla sabbia una copia e interrogandosi sulla sua strana espressione (almeno secondo il racconto romanzato, Sorridi Gioconda!, di Giuseppe Scaraffia). E’ chiaro che il lavoro di Fossi non si limita ad un semplice segno sognante, ma che mette in campo tutte le possibili tecniche e modalità espressive (fotografiche, pittoriche, plastiche). Tanto che, alla fine, la sua può essere vista come una metafora, un’immagine del tornare sempre alla matrice (al “seme”): il che significa voler riprendere sempre da capo la ricerca di un esito inanellando opere una dopo l’altra, suggerendo sequenze e varianti, che in fondo sono sempre interpretazioni (commenti) e al tempo stesso ritorni all’origine.
2.
Già dalle prime tele che risalgono al 1972 si può intuire l’ossessivo attaccamento al “tema” da parte di Fossi, dove però ogni ripetizione dell’immagine risulta essere anche una sua amplificazione e una sua moltiplicazione. Gli stessi titoli parlano di “sintesi”, di “sequenze”, di “schemi”, come se l’artista volesse ribadire che la sua esperienza non si esaurisce in un solo sguardo, anche se insaziabile e curioso, ma si protende verso una osservazione analitica (se non addirittura scientifica), capace di studiare la costruzione interna dell’opera, la sua ossatura, di esperire le formule che ne governano la costruzione. Egli pensa che, come quella del corpo umano, o di un edificio, si tratti di un’ossatura discreta, che a volte si fa perfino dimenticare, ma che non manca mai, “offrendo dell’opera quelle linee principali o segrete” (di cui ama parlare anche Delacroix nel suo “Diario”). Così, ci troviamo di fronte a una sorta di celebrazione di quello che è ormai osservato come un cliché o uno stereotipo di massa (l’icona di Monna Lisa, appunto), ma fotografata, inserita in un procedimento serigrafico e poi dipinta in positivo e in negativo, o anche distorta come da una lente deformante, quasi a farle assumere un’espressione mutevole, ambigua, o addirittura colta in un’alternanza di osservazioni dirette e rovesce. Del resto, sottolinea l’artista, “non è quella di Monna Lisa una figura che ha una sembianza femminile e al contempo maschile? Non impersona un essere elusivo, ambivalente?”. Quello che conta, però, è che l’intervento di Fossi nel suo iterare l’immagine, divenuta ormai banale, comune, universale, compie un’operazione opposta a quella di Andy Warhol, che replica per decine di volte lo stesso soggetto (Liz Taylor, Marilyn, Elvis o Mao che sia): infatti e mentre l’artista americano, prima preleva le sue immagini dal codice della pubblicità e poi le tratta esattamente secondo i canoni pubblicitari (cioè risponde all’invasione dell’apparente con la sua duplicazione, la sua generalizzazione, replica all’artificio con un iper-artificio), Fossi invece pare voler regredire dallo stereotipo al prototipo, quasi penetrandolo o isolandone (e riquadrandone) graficamente delle porzioni, delle congetture formali, dei frammenti iconici. E’ la mano che interviene, che traccia, che saggia l’inafferrabile struttura del mitico quadro leonardesco. “Per me è fondamentale arrivare al DNA del dipinto, all’informazione genetica che lo costituisce – ribadisce sempre Fossi -. La mia vuole essere una ricerca simile a quella di uno scienziato: per questo taglio, sminuzzo, cancello l’immagine, la riduco a una struttura puntiforme, come quella data da una serie di pixel, o la tratto come fosse un pugno di creta, in cui affondare le dita, per meglio appropriarmene e farla mia”.
3.
Sempre nel ‘72 assistiamo ad un ulteriore sviluppo di quello che è il confronto con la storia dell’immagine. Fossi sa che l’arte nasce dall’arte e in una serie di lavori, pur confermando il modello basico della Monna Lisa, sente l’esigenza di sconfinare al di là del puro dato scenografico, per evidenziare una gestualità sorgiva, primaria, al limite del “tachisme”. Ma, se le macchie possono apparire come casuali getti d’inchiostro, è chiaro che tutto sembra essudare come dalla “memoria estetica” del mito, dalla profondità della tradizione. Così se guardiamo l’opera dal titolo Mito monnalisiano intensificato n.1, la figura della Gioconda dà l’impressione di dissolversi, di farsi puro magma, terreno fertile, per la nascita di una nuova immagine: nel caso specifico, di trasformarsi in un quadro in aggetto con all’interno delle chiazze di colore che alludono alla tensione, al vitalismo del primo segno. E, quanto sia importante questo primo segno è evidenziato anche da tele in cui il gesto assume una connotazione autonoma, accampandosi sulla superficie con assoluta urgenza e mancanza di ogni premeditazione: una visione ravvicinata, una messa a fuoco, simile a quella del blow-up cinematografico, che intende evidenziare quanto sale dal profondo della Storia, innestandosi nel profondo dell’essere, o anche quanto la cultura si combini con la tensione interiore e il suo istintivo prorompere. Ma il discorso non muta neppure nelle “proiezioni monocrome”: autentici riquadri o schermi dipinti al di sopra della figura mitica: è ancora un cercare un grado embrionale della visione, delle unità linguistiche elementari, che sembrano emanare dalla sublimità e dall’”astrazione” del modello.
Ma la scomposizione può venire intesa anche come un interrogativo fondamentale sulla natura stessa dell’arte, su come il passato sia in sé eterno e duraturo e come insieme possa aprire (progettare) la continuità del futuro. E proprio una serie di lavori di Fossi del ‘74 sta a dimostrare come la Storia non sia passiva, immobile (o tutt’al più ripetitiva), bensì costruttiva e piena di stimoli, di sentori a venire. Si tratta di tele composte da due zonature grafiche, l’una che parte dall’alto come una stalattite e una che sorge dal basso come una stalagmite, evocando chiaramente la divisione del quadro leonardesco in due parti non simmetriche (sia per quanto riguarda l’orizzonte che per quanto riguarda il volto della donna). Ma se facciamo attenzione, ci accorgiamo che il volto è ancora parte costitutiva dell’immagine, o meglio, che la traccia iconografica della Monna Lisa penetra, s’incista negli spazi dipinti. E allora ha ragione l’artista quando parla di “hyle” (cioè di materia, di sostanza che trattiene in sé ogni forma) o anche di corteccia arborea, il cui tessuto mescola segni nuovi e antichi, tracce sedimentate nel tempo e tracce inedite. Ma si potrebbe fare riferimento anche a un terreno carsico, dove il sotterraneo e il superficiale si toccano, si influenzano, interagiscono. E’ come se l’artista volesse sottolineare il fatto innegabile che il passato ci abita, che la memoria dà continuità al nostro vivere e al nostro essere, un po’ come ci ha insegnato Proust, per il quale il vero significato della realtà si dà attraverso il ricordo. E non è un caso che Fossi, nel ciclo da lui intitolato Monnalisiano celato faccia emergere da dei fondali grafici lo sguardo insieme inquietante e sfuggente della Gioconda. E’ sempre il desiderio di fare i conti con una presenza solo in apparenza defilata, elusiva: ossia di dare vita in qualche modo a nuove immagini, ma sempre sotto l’occhio vigile della figura mitica.
4.
E quali possono essere mai le nuove immagini, i nuovi cifrari visivi? Direi che sono una serie di prove per arrivare alle unità linguistiche elementari, alla radice stessa del fare: in una parola, a individuare la natura e la proprietà degli elementi fondamentali della forma, ad esplorare le componenti dell’opera d’arte, fino quasi ad entrare dentro e, come scriveva Kandinsky in Punto, linea, superficie, “a diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi”. E’ così con i Graffiti Archeomurali, con gli Animali a midollo, con Miaolone (degli anni ‘74 – ‘75): immagini stilizzate di serpenti, realizzate come se fossero linee viventi, che si animano nello spazio: linee senza vero inizio e senza vera fine, suscettibili di tutte le rappresentazioni e di tutte le metamorfosi possibili: linee mobili, vagabonde che non chiudono e non pietrificano, ma che procedono per segmenti come in una colonna vertebrale con tanto di “midollo osseo” che le innerva. La figura del serpente in Fossi vuole rappresentare una sorta di archetipo, legato alla fredda, vischiosa e sotterranea notte delle origini, “una cosa primordiale priva di membra, che non cessa di srotolarsi, di sparire e di rinascere” (H. Keyserling), ma soprattutto una cosa che si rintraccia nelle pitture di tutti i popoli primitivi (negli stessi graffiti dell’epoca paleolitica), come segno di vita nella sua latenza o addirittura come “lo strato più profondo della vita stessa”.
Ma nelle quattro tele dal titolo Codice monnalisiano elaborato si va ancora oltre (o, meglio, ancora più addentro nel corpo della pittura): viene realizzata una sorta di accostamento vertiginoso nei confronti dell’incarnazione del “principio vitale” (il serpente): si tratta di un segno che ha la parvenza di squama, di scaglia: di un tratto che moltiplica i propri giri su se stesso, creando uno scarto percettivo caratterizzato proprio dal sovrapporsi sul piano di fondo di più centri di espansione e di più eterogenee densità cromatiche. Tanto che si formano sotto gli occhi più fuochi gravitanti, che danno l’idea di una velocità (e di una gestualità) che si sottrae ad un andamento puramente temporale e riguarda piuttosto l’immediatezza del sentire.
Ma in questo giro di anni (‘76-’78) tutto il lavoro di Fossi pare staccarsi dall’ossessiva meditazione sul tema (di Monna Lisa), quasi astrarsi dal motivo, per dedicarsi all’indagine delle fonti concrete dell’arte, alla dissezione e all’anatomia dei suoi procedimenti. Lo stesso artista in una nota del ‘77 rileva: “La mia analisi poetica va sviluppandosi avanti e indietro come nello scorrere del vivere quotidiano”. Può trattarsi di linee tracciate in diagonale, quasi pitture e gesti del colore che richiamano i procedimenti della “Nuova Pittura” oppure di un semplice gioco di tratti, simili a esitanti accenni progettuali; o ancora di bande cromatiche prodotte come da un pennino sismografico o di superfici fuse e diffuse (declinate spazialmente) da queste stesse bande, fino ad arrivare alla Mappa monnalisiana, che presenta una serie di campi tracciati da macchie, da segni, da effusioni incerte quasi la mano cercasse di circoscrivere improbabili mondi. Così, davvero, oltre che “dietro l’opera” (la storia dell’immagine), in qualche modo Fossi cerca di individuare e indagare anche un “dentro l’opera” in termini più generali, investigando le ragioni che la fanno essere un dato fondamentale, elementare, concreto della visione. Parafrasando Italo Calvino, si potrebbe dire che egli sembra mosso “da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di osservazione trasfigurante e visionaria”.
5.
Questa necessità esplorativa porta l’artista a confrontarsi e a tradurre visivamente la molecola del DNA in cui sono scritte tutte le istruzioni per il funzionamento della vita naturale, assieme alla sua riproduzione e duplicazione. Ma come riportare su tela l’elegante struttura a doppia elica di pertinenza della biologia? A parte quel sottile lavoro di sintesi per cui la molecola assume una forma che si espande dinamicamente nello spazio, quello che importa a Fossi è che quella stessa molecola si combini e si sviluppi all’infinito: vero punto di partenza per “mettere al mondo un mondo” che prima non c’era (in quanto parte di quell’universo microscopico, dove il nostro occhio non può arrivare). Operazione, la sua, che ha un “input” di origine scientifica, che si capovolge però immediatamente in processo poetico. E’ come arrivare al senso del primario, alla matrice originaria di tutte le cose, ma affinché da questa “radice” maturi una rinascita, un rinnovamento delle modalità stesse del dipingere, anzi del comporre. Come interpretare, del resto, quelle scansioni cromatiche, dove la forma del “codice genetico” si ripete secondo un festoso “pattern” visivo (che dà l’idea di fregio, di décor, di ornamento)? O come leggere quell’opera singolare dal titolo Lettera “A” in sospensione (dell’80), in cui il segno che dà inizio all’alfabeto si intreccia con lo schema grafico del DNA, dando vita ad una tela tutta infrazione, echi, risonanze di linee e di colori?
Così, quando nel 1982 Fossi intraprende quello che lui chiama in maniera curiosa e insieme criptica “Ciclo monnalisiano geo-celato”, capiamo subito di trovarci di fronte ad opere che cominciano dal fondo, quasi dal grembo (della Scienza e della Storia), per approdare ad un cosmo in formazione. Mai definito, anzi “celato” o “velato”, proprio perché si dà come emanazione di un luogo ctonio, notturno e come primo aggallamento verso uno stadio di luce, con tutto quello che ciò comporta a livello di esistenza necessariamente approssimativa, inconstituita, inevoluta. Si tratta di macchie e di segni su cartone che sembrano inscenare un delirio e una fantasia d’azione, capace di mettere letteralmente a soqquadro lo spazio: qui vale l’energia allo stato puro, l’atto gestuale che vaga ai limiti di una continua rottura, ma anche al limite di un continuo turgore o addensamento. Si potrebbe pensare al movimento puro, automatico di Masson, ma in Fossi l’obiettivo non è quello di far parlare la materia, di strapparla alla sua inerzia, di darle vita con il gesto, bensì di dare vita casomai alla propria “mitologia immaginaria”, di far intravedere in controluce la struttura del DNA quale “plancia di comando” della vita stessa della pittura.
6.
E questa simbolica trasmissione del patrimonio culturale attraverso lo spazio e il tempo si approfondisce ancor più nella serie di acrilici (eseguiti tra l’85 e l’86) che prende il titolo di “… Sussurri e impronte”: sussurri, perché entrano nel quadro degli accenni verbali, delle scritture veloci e nervose (come “Rumore” o “Silenzio”), ma anche “collage” o numeri stampigliati secondo codici segreti; e impronte, perché la tela, ricoperta da una stesura omogenea di giallo (che ricorda la sabbia del deserto) è tutta attraversata da tracce vaghe, da orme sparse, che non rimandano però alla nozione di perdita, di sparizione (del corpo della pittura), ma che estraggono da queste sorgenti immemoriali mormorii sopiti. Un deserto che, alla pari di quello del poeta Edmond Jabès, non è visto come una distesa arida, ma come un luogo interrogante, colorato, in continua evoluzione. Uno spazio vivente che, dietro le apparenti testimonianze di dipartita, si presenta invece come ricerca incessante del massimo grado di ricchezza e di complessità immaginativa. Così l’impronta rinvia a un “altro” o a un “altrove” di cui qualcosa è stato come magicamente trattenuto: insieme feticcio, memoria ed esperienza. Del resto, il dizionario ci dice che “lasciare un’impronta “significa lasciare un marchio attraverso la pressione di un corpo su una superficie: definizione rudimentale che cela tutto il valore dell’ombra (in cui cova la luce), tutta la qualità del vuoto (in cui si annida il pieno), tutto il senso del rovescio (in cui è compreso il dritto).
Ebbene, questa illimitata coincidentia oppositorum sembra trovare una incredibile e visualizzazione nell’opera Trame di coesione (dell‘86). Il lavoro è svolto sul rovescio della tela (su quella dimensione cioè che normalmente è negata alla vista): solo che poi la stessa superficie non appare omogenea, compatta, bensì composta da tante strisce verticali, quasi fosse stata tagliata (con tutti i significati che “il tagliare” porta con sé: ossia l’interrompere, l’escludere, l’attraversare, ecc.). E in effetti, la figura della Monna Lisa che riappare in scena è come fatta a pezzi, infranta, per far sì che dal fondo, dall’ombra emerga il logo (l’icona, il marchio) del DNA che Fossi ha in qualche modo eletto come cifra concettuale e immaginativa del proprio dipingere. Solo che così si ha la sensazione di fare davvero un viaggio nel cuore stesso dell’immagine, di entrare nel suo corpo, per coglierne il nucleo e tutte le possibili radiazioni visive.
7.
In Incontro/scontro di due gabbie monocromatiche (dell’87) ci troviamo letteralmente di fronte a due quadri, uno che fuoriesce dall’altro: il primo lavorato da righe nere verticali con forte accentuazione materica, il secondo, che pare uscire da dietro per spingersi nel vuoto, solcato da finissimi fili di una cromìa bianca. A parte l’immancabile struttura del codice genetico che trapassa da una composizione concreta a una astratta, dalla pittura al disegno, qui a contare è soprattutto il divincolarsi dell’opera da un assetto bidimensionale a uno tridimensionale. E’ come se Fossi si preparasse a dare corpo, plasticità, volume alle sue rivisitazioni “archetipiche”, a espandere nello spazio le sue riflessioni sempre al confine tra scienza e arte, tra mitologia e tecnologia. E tutta la serie di schizzi preparatori, anzi di veri e propri progetti, con tanto di rilievi, correzioni, proiezioni che l’artista realizza, non fanno altro che anticipare e predisporre quegli interventi scultorei che saranno un po’ il linguaggio su cui Fossi svilupperà la sua ricerca a partire dagli anni ‘90. Un linguaggio che però non si allontanerà da quelle che sono le intenzioni pittoriche, ma che (come ha scritto Vittorio Sgarbi in un testo del 2004) continueranno ad essere “ripensamento espressivo” della mitologia classica, ricerca di “echi stranianti”, “intenzione creativa fervidamente immaginosa”.
E’ un po’ la cifra stilistica che attraversa tutta l’opera di Fossi: egli si rivolge alla Storia, alla sua gravità, alla sua mobilità, ma lo fa con leggerezza, mobilità, curiosità. Tutto ciò che è stato, è pur vero, ritorna, si ripete, ma ritorna come differenza e si ripete come infinito ripensamento. La pittura è percorso di conoscenza, impegno teorico, pratica analitica. Perciò riprendere l’opera paradigmatica di Leonardo è un modo per riflettere sulle tecniche e i materiali stessi dell’arte. Senza con questo limitarsi a una pura verifica mentale, a un ripiegamento dell’arte su se stessa. La Gioconda diventa per Fossi l’emblema per decostruire e ricostruire l’immagine. Non gli basta “citarla”, ha bisogno di rivisitarla, rielaborarla, in un certo senso, di approfondirla. Il che non vuol dire metterla a nuovo, restaurarla, abbellirla, ma individuarne i segni costitutivi attraverso i quali sperimentare tutte le possibilità creative, un po’ come farebbe un linguista che cerca l’etimologia (il DNA) della parola, per individuarne la genesi e proporne nuovi livelli di interpretazione e di utilizzo.
Luigi Meneghelli
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